Irina Livshun aveva solo trentun anni, era bellissima ma si sentiva vecchia. Vecchia per lavorare come modella, per sfilare ed essere apprezzata (amata?) da tutti.
Da qualche mese le agenzie di moda non la cercavano quasi più, preferendole ragazze più “giovani” e lei era sprofondata nell’apatia, allontanandosi dagli amici e perdendo, poco a poco, la voglia di vivere e di sperare.
Qualche giorno fa questa affascinante indossatrice kazaka ha deciso di suicidarsi, dandosi fuoco con una bomboletta di gas nella sua casa di Almaty.
Una notizia triste da leggere e impossibile da credere, eppure così vera da far male. Scegliere di morire perché si ritiene di non avere più l’età per inseguire un sogno o per ricominciare, per dar vita a un nuovo obiettivo, per vivere una vita degna di essere vissuta.
Scegliere di morire per paura di una competizione sfrenata che si basa, spesso, su modelli irraggiungibili, talvolta persino fasulli, a cui le donne (non solo le modelle) sentono di doversi uniformare per essere accettate.
Una pressione che può diventare subdola e insostenibile se non si è in grado di opporre una ferma resistenza figlia della ragione e della libertà di pensiero che si coltivano nel tempo, con lo studio, le relazioni e l’osservazione del mondo.
Prima obiezione: si sa, il mondo della moda ha regole ben precise che possono apparire perfino crudeli. In base a tali dettami si può essere “vecchie” anche prima dei trenta anni, quando tutta la vita è ancora da scrivere.
Vero, è così, inutile negarlo. Un dato di fatto che può piacere o meno, ma la sostanza non ne viene minimamente alterata. Ciò, però, non significa che la situazione non possa essere cambiata, che non possa evolvere. In questo senso sono stati fatti molti passi avanti, per esempio la presenza delle modelle “curvy” in passerella (benché anche questo abbia suscitato polemiche). L’impressione, però, è che si tratti ancora di eccezioni ben lontane dal divenire una norma.
Le donne non sono (per fortuna, direi) manichini eternamente giovani e perfetti, ma creature di carne viva e cuore pulsante. La moda, anzi, le mode dovrebbero “uniformarsi” a loro, non il contrario.
O meglio, bisognerebbe trovare l’equilibrio, il punto d’incontro tra il sogno, l’ideale di bellezza e la vita vera, in modo che siano i primi due ad aderire di più alle curve femminili, come abiti di stoffa e personalità in grado di smussare (non acuire) le paure e il senso di inadeguatezza.
Inutile e dannoso creare etichette, categorie, taglie e misure secondo il canone ideale (qui il discorso va ben oltre la moda) e pretendere che tutti vi rientrino in nome dell’apprezzamento e del successo in società.
A proposito, cos’è il successo? E la felicità? Cosa significa realizzarsi e vivere una vita piena? Basta una taglia 42 per riuscirci?
Aveva ragione Fatima Mernissi quando sosteneva che le donne occidentali non sono davvero libere e che il loro personale harem è proprio la taglia 42 (e non solo quella).
L’aspirazione all’omologazione, da sempre e, soprattutto, se portata alle estreme conseguenze, presuppone il controllo, l’impoverimento, la riduzione dei colori del mondo a uno solo, imposto.
Seconda obiezione: i canoni estetici sono vecchi quanto il mondo, rappresentano un ideale, una definizione che caratterizza tutte le epoche storiche. Non si può usare la moda quasi fosse il capro espiatorio di tutti i mali.
Verissimo anche questo, ma l’ideale non può naufragare nell’ossessione. La perfezione non esiste o, almeno, non è di questo mondo costituito, al contrario, dalla diversità, dall’unicità seppur imperfette.
Il canone, l’ideale, il concetto di bellezza sono fondamentali e sarebbe scorretto tentare di nasconderlo.
L’umanità ha bisogno di tuffarsi nella bellezza, appagando corpo e spirito, ma dovrebbe fare attenzione ai confini in cui relega tale idea, alle sfaccettature che le dona (o di cui la priva).
Un modello di ispirazione è un balsamo per l’anima, una spinta a migliorare, non un “idolo concettuale da venerare”.
L’uomo può e deve imparare a nuotare nell’oceano dell’idea e delle sue trasformazioni, a muoversi aprendosi un varco, con la ragione e l’istinto, verso le infinite possibilità che distruggono il cliché.
Terza obiezione: non si può sempre dare la colpa alla società, altro capro espiatorio monolitico e compatto, senz’anima, usato per lavarsi la coscienza. Del resto sono gli individui a formare la società, quindi tutti gli esseri umani, nessuno escluso.
Infatti. La società siamo noi. L’unico modo per cambiare ciò che non va è prendere coscienza della nostra mente e del nostro corpo, senza farci usare, imparando a selezionare, cioè a pensare, ad allenare lo spirito critico, soprattutto quello delle donne alle quali, ancora oggi, viene insegnato e “consigliato” di accettare passivamente, di lasciar addormentare la coscienza per avere una vita serena e appagata, felice (da quando la serenità si baratta? Di quale felicità si parla? Ce ne è una sola, riconosciuta e “approvata”, oppure varia in base ai desideri di ciascuno? Se questi desideri nascono dal pensiero e l’obbedienza passiva finisce per uccidere quest’ultimo, allora ciò significa che il sogno stesso è destinato a perire).
Il primo passo parte da ognuno di noi, ogni giorno, con determinazione. La morte di Irina Livshun è il frutto di un disagio profondo, di una pressione insopportabile sul corpo e sullo spirito e deve farci riflettere.
Il cammino verso la vera, individuale realizzazione di sé è, inevitabilmente, lungo e pieno di ostacoli, ma nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile. Scavare nella coscienza, scegliere tra tante possibilità è un diritto, ma anche una responsabilità da prendere con serietà.
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